
LA CITTA' DEI VIVI
Liberamente tratto dal romanzo di Nicola Lagioia
regia Ivonne Capece
video e adattamento drammaturgico Ivonne Capece
Interpreti Sergio Leone, Daniele di Pietro, Pietro Pasqualetti, Cristian Zandonella
Interpreti video Tindaro Granata, Arianna Scommegna, Pasquale Montemurro, Marco Té, Samuele Finocchiaro, Stefano Carenza, Pietro Savoi, Lorenzo Vio, Ioana Miruna, Penelope Sangiorgi, Barbara Capece, Luigi de Luca, Pietro Gennuso, Giuseppina Manaresi, Olmo Broglia Anghinoni
scene Rosita Vallefuoco
assistente alla scenografia Michele Lubrano Lavadera
videomaking e regia video Ivonne Capece
costumi e concept visivo Micol Vighi
sound designer Simone Arganini
assistente alla regia Micol Vighi
assistenti volontari Pasquale Montemurro, Barbara Capece, Luigi de Luca,
light designer Luigi Biondi
riprese Antar Corrado
post-produzione video Domenico Parrino
foto di scena Luca Del Pia
*si ringrazia Nicola Lagioia
Produzione
Elsinor Centro di Produzione Teatrale
TPE Teatro Piemonte Europa
Teatri di Bari
Fondazione Teatro di Napoli
Teatro di Sardegna.
Un caso di cronaca nera tra i più angoscianti degli ultimi anni diventa materia teatrale. Un delitto assurdo e brutale scuote Roma nel cuore della notte: due giovani insospettabili torturano e uccidono un coetaneo senza un motivo apparente. Lo spettacolo La città dei vivi porta in scena la discesa in un inferno che appartiene non solo ai protagonisti, ma a un’intera società. Liberamente tratto dall’inchiesta narrativa di Nicola Lagioia, affronta il male nella sua forma più disarmante: quella che si nasconde dietro volti normali, in vite comuni. Attraverso una drammaturgia tesa, ibrida tra racconto e confessione, il teatro diventa lo spazio dove guardare l’indicibile. Roma, presenza viva e ambigua, è insieme scenario e protagonista: una città che ammalia e consuma, che attrae e abbandona, viva, tentacolare, oscura. Una città che pulsa di desideri, illusioni, fallimenti. I personaggi si muovono dentro una spirale di fascinazione e repulsione, mentre il pubblico è chiamato a guardare dove normalmente si distoglie lo sguardo.
La città dei vivi bestseller mondiale di Nicola Lagioia, nuova creazione della regista e digital artist Ivonne Capece interroga il confine tra narrazione e realtà, esigenza artistica e ossessione esistenziale. Non è la cronaca di un delitto, ma il riflesso di un’autopsia interiore, in cui l’artista si espone al vortice emotivo che lo lega alla sua città e al suo stesso impulso di raccontare. Roma, con il suo caos, l’indifferenza e la magnificenza, non è uno sfondo ma una forza che modella il dolore e la scrittura. Fare arte significa misurarsi con un abisso, senza la certezza di uscirne indenni.
NOTE DI REGIA
" Non mi interessava raccontare un delitto, ma il vuoto che lo circonda. La città dei vivi nasce dal bisogno di attraversare quella zona cieca in cui l’umano si smarrisce, dal desiderio di interrogare l’ombra, non di illuminarla. È una riflessione sulla nostra incapacità di vedere, sulla tensio ne tra la necessità di capire e l’impossibilità di comprendere fino in fondo il male. Non ho cercato la cronaca, ma la vertigine etica che essa contiene. L’adattamento non vuole trasporre il romanzo, ma riscriverlo come esperienza interiore. Ho cercato un linguaggio che restituisse la complessità del testo di Lagioia senza riprodurlo, isolando linee emotive e voci interiori. Gli spazi scenici sono luoghi mentali: un appartamento, un corpo, una città. L’apertura riprende l’epigrafe andreottiana che inaugura il romanzo: “Non attribuiamo i guai di Roma agli eccessi di popolazione: quando i romani erano soltanto due, uno uccise l’altro.” La scena iniziale è una fondazione mitica: Romolo e Remo — i due assassini del romanzo — sono allattati da una lupa maschio, un politico, figura mostruosa e ambigua del potere. È il gesto originario della violenza maschile, l’archetipo di una genealogia patriarcale che ancora oggi alimenta la dinamica tra dominio e sottomissione. Nel romanzo le madri sono assenti; i padri, invece, esposti e travolti dal clamore mediatico. In questa sproporzione ho riconosciuto il segno di un potere che si tramanda da padre a figlio, di una civiltà che si fonda sull’eliminazione del fratello: la nostra fondazione è un fratricidio. Lo scrittore — protagonista della mia messinscena — è l’artista che tenta di scrivere il romanzo e che, nel farlo, viene ossessionato dai fantasmi dei suoi personaggi. Come in un moderno e tormentato Sei personaggi in cerca d’autore, essi gli appaiono come spettri della sua coscienza. La sua figura si confonde con quella dei padri dei ragazzi, in un continuo cortocircuito tra generazioni, colpa e identità. I tre giovani assassini, i padri,lo scrittore, il politico-lupa che li nutre: tutti prigionieri dello stesso archetipo, di una trasmissione tossica del potere. L’assenza del materno — dell’accoglienza e della cura — lascia spazio a una città di padri e figli senza donne, senza scampo, senza pietà. Roma diventa il corpo simbolico di questa storia: organismo bellissimo e corrotto, sacro e marcio insieme. Le statue impacchettate e i reperti classici in procinto di cadere osservano l’appartamento dove si consuma l’orrore quotidiano: il dialogo tra l’eterno e il precario, tra la grandezza perduta e la decadenza presente. La scena si frantuma in molte dimensioni — reale, digitale, mentale. Gli attori semi-olografici, i video, le proiezioni sono intrusioni del mondo esterno nel dolore privato: la violenza dello sguardo pubblico, dei media, dei social. Ogni immagine è un giudizio, ogni schermo un muro. La città dei vivi è la città dei padri che non sanno più cosa insegnare e dei figli che non sanno più chi diventare. Il male non è un’eccezi one, ma un principio di realtà. Guardarlo, anche solo per un istante, è forse l’unico gesto possibile per restare vivi — e per tentare di riscrivere la nostra fondazione. "
Ivonne Capece
AVVERTENZA
Lo spettacolo “La città dei vivi“ è un’opera di finzione, seppur liberamente ispirato ad un romanzo che tratta vicende di cronaca note al pubblico. Esso non ha finalità informative, documentaristiche o giornalistiche, né intende rappresentare fedelmente fatti, persone o responsabilità realmente accertate. Al contrario, si configura come opera artistica, espressione del diritto alla libertà creativa, finalizzata all’esplorazione di temi universali attraverso strumenti propri della scena: la metafora, l’iperbole, la trasfigurazione simbolica, l’immaginario. Eventuali riferimenti a nomi, situazioni o dinamiche riconoscibili sono frutto di elaborazione drammaturgica e non devono essere intesi come affermazioni veritiere o ricostruzioni attendibili dei fatti. L’opera non mira ad informare né a fornire verità, ma a stimolare una riflessione artistica e umana. In nessun caso la rappresentazione va intesa come accusa, insinuazione o giudizio reale nei confronti di soggetti eventualmente riconoscibili. Ogni elemento narrativo mira a manipolare la vicenda specifica per raccontare una storia universale, proposta in chiave poetica, simbolica e provocatoria.
























